Sono passati ormai 35
anni dalla morte di Enzo Tortora, avvenuta il 18 maggio 1988. Quasi 40, invece, da quel
17 giugno del 1983 in cui fu arrestato a Roma con l’accusa di associazione camorristica e traffico di droga. Benché io fossi una bambina (all’epoca dell’arresto avevo soltanto 12 anni), quella vicenda mi è
sempre rimasta impressa. Forse, anche perché è stata - e resterà per sempre - un evidente e clamoroso caso di
persecuzione, non solo mediatica, nei confronti di un uomo probabilmente
inviso alla società e al mondo televisivo a causa della sua onestà intellettuale.
Tortora non fu
vittima di un errore. Fu facile accusarlo cambiando semplicemente una consonante: il reo si chiamava
Enzo Tortona ma, per un discorso di comodo, l’accusato divenne Enzo Tortora. Questo accadde grazie alla menzogna dei testimoni, con la complicità di toghe poco propense a cercare la verità. Tutta la vicenda è ben illustrata nel libro "Testa alta, e avanti”, edito da Mondadori per la collana Strade blu, di cui è autrice Gaia
Tortora, la secondogenita di Enzo, oggi affermata giornalista e vicedirettrice
del Tg La7.
Gaia aveva 14 anni
quando arrestarono suo padre. Era il giorno del suo esame di terza media. “Sei l'ultima dei
Tortora, una missione che io considero molto molto importante. Non gettarla via” le scriveva il papà dal carcere. Lui intendeva che lei fosse la più piccola erede, ma il fato ha voluto
che restasse l’unica. Come il padre, anche Silvia, la sorella di Gaia, è morta a 59 anni, vinta da un male incurabile. Enzo aveva la stessa età della primogenita quando, 14 anni prima, si spense nella casa di Milano, sopraffatto da un tumore polmonare. Quanta gente si ammala
perché la sua salute è minata da drammi che sconvolgono intere esistenze? Quanti, pur animati da grande spirito di vita e sete di giustizia, vengono fiaccati nel corpo e nello spirito da estenuanti lotte per far emergere la verità? La famiglia Tortora è stata gettata nel tritacarne mediatico senza sconti:
essere definita “la figlia di un camorrista” mentre si attraversa la strada
dinnanzi casa non è l’ambizione di nessuna adolescente. Così come vedere le immagini del proprio padre ammanettato mentre esce dal commissariato stretto tra due carabinieri è una scena che si potrebbe
risparmiare ai famigliari già sconvolti dalla notizia dell'arresto.
Tutti hanno puntato il
dito contro Enzo Tortora. Solo gli amici stretti e i più onesti uomini di
spettacolo hanno capito subito che si trattasse di un equivoco. Gli altri hanno preferito dileggiare, prendere le distanze dalla famiglia e dall'imputato, accusandolo convinti di avere la verità in tasca. Atteggiamenti che continuano ad esistere anche al giorno d'oggi: "Ogni anno - scrive Gaia - in media sette persone sono giudicate colpevoli quando non lo sono e mille innocenti vengono ingiustamente sottoposti alla misura di custodia cautelare".
Con questo libro Gaia
trasmette al lettore tutta la rabbia per le ingiustizie subite dalla sua
famiglia, tra l'altro mai risarcita economicamente del danno patito. Ma lo scritto è anche testimonianza di un grande amore filiale, nemmeno per un attimo messo in dubbio dalle basse
insinuazioni di camorristi ed esponenti della magistratura. Gaia non ha mai
pensato che suo padre potesse essere colpevole. Fin dall’infanzia è stata abituata a tenere duro, a resistere. A nascondere le
preoccupazioni dietro il sorriso. Negli anni ha avuto bisogno di numerose sedute di psicoterapia e talvolta si è chiesta se valesse la pena proseguire, come ha fatto sua sorella, una battaglia per dare voce a chi non l'aveva, pur mantenendo la fiducia nelle istituzioni.
In alcuni passaggi del libro mi
sono riconosciuta in lei: una delle sue principali ambizioni era quella di
lavorare in una redazione, anche solo per portare i caffè. Io anni fa, in
occasione della visita alla sede di un quotidiano torinese, dissi a mio
marito che mi sarebbe piaciuto respirare quell’aria anche solo come addetta allo svuotamento dei cestini della spazzatura. Ci sono persone che ambiscono al ruolo di giornalista tanto per fare; altre che sono motivate dalla brama di raccontare e divulgare storie, denunciare soprusi. Anche io, fin dall'adolescenza, ho sempre avuto il vizio di esternare i miei pensieri e le mie convinzioni. Con il senno di poi riconosco come questo atteggiamento da paladina della giustizia spesso non abbia giocato a mio vantaggio, facendomi diventare "scomoda" in alcuni contesti scolastici e lavorativi. Forse avrei dovuto giocare d'astuzia e usare la diplomazia, ma ormai è tardi per rimediare.
Nel caso di Gaia la competenza e la
caparbietà l’hanno condotta dove è ora. Ma anche lei, come me, ogni tanto si
chiede se abbia senso non abbassare la testa, resistere e pagare il prezzo di questa ostinazione, che talvolta ha ripercussioni su più fronti . "Le battaglie non si combattono di nascosto, bisogna metterci la faccia, accettare il rischio delle conseguenze. Dunque ogni volta parlo, perchè la libertà e l'onestà intellettuale non hanno prezzo".
Questa sua affermazione mi trova completamente d'accordo. Eppure, riconosco che non tutti abbiano la capacità di tradurre in parole il proprio dolore come ha fatto lei. Anche per questo sarebbe necessario che gli atteggiamenti persecutori, infondati e gratuiti, non avessero più a verificarsi. Perchè i danni sono permanenti e lasciano segni pesanti nelle vite degli imputati e delle loro famiglie. Qualcuno, come Gaia, ne riesce ad uscire a testa alta, andando avanti. Lei lo scrive a chiare lettere: "Nel dolore non ci sono obblighi, ma diritti. Il diritto a lasciarsi andare. Ad accasciarsi se stiamo male, a imbozzolarci se ne sentiamo il bisogno. A piangere, persino". Un'altra sua bella affermazione, una delle tante di questo volume.
"Non si può essere madri
di tutti". Gaia ha ragione, quando dice che non ci si può fare carico di troppe responsabilità perché si finisce per esplodere. Ma io credo che, nonostante le ingiustizie subite,
lei invece non avrebbe mai voluto essere la figlia di nessun altro che non fosse Enzo Tortora. Perchè è suo padre che le ha insegnato a alzare la testa con fierezza ed orgoglio, come ricorda il titolo di questo splendido libro.
Sicuramente, la vicenda che ha colpito la sua famiglia le ha insegnato ad avere cura del prossimo, trattandolo con la delicatezza che solo una persona ferita nel profondo può riservargli. "In fondo è tutto qui: essere attenti agli altri. Garbati, avrebbe detto mio padre. Di buonsenso, aggiungo io. Un atteggiamento che si può tenere solo se si smette di avere uno sguardo ombelicale, autoreferenziale, egoista e si sceglie di essere consapevoli di far parte di una comunità". Un atteggiamento che dovrebbe far parte della nostra quotidianità, ma spesso non lo è.
Quando, riabilitato dall'assoluzione, nel febbraio 1987 Enzo Tortora tornò per un breve periodo alla conduzione di Portobello, il programma che lo aveva reso famoso, esordì con una frase passata alla storia: "Dunque, dove eravamo rimasti?". Io non amo guardare indietro, non mi faccio facilmente cogliere dalla nostalgia. Però, a giudicare dal contesto della società attuale, mi pongo spesso preoccupata una domanda: "Come siamo arrivati fino a qui?".
A differenza di Gaia Tortora, ho difficoltà a darmi una risposta che sia plausibile, incoraggiante e mi dia da credere che, come afferma qualcuno, il meglio debba ancora venire. Però, nonostante tutto, anche io come lei voglio andare avanti a testa alta. E, se non incontrerò la speranza di un futuro migliore, avrò perlomeno mostrato l'orgoglio della rettitudine.